L’art. 3 l. 604/1966 afferma che: “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Le scelte imprenditoriali sottese al predetto atto espulsivo, dunque, possono essere di carattere economico o tecnico-produttivo (aumento dell’efficienza del lavoro attraverso l’introduzione di innovazioni produttive).
Un caso particolare è rappresentato dal licenziamento per sopravvenuta infermità per ragioni indipendenti dal lavoro.
L’art. 30, c. 1. L. 183/2010 statuisce che “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. Ne discende che il Giudice del Lavoro è chiamato ad accertare esclusivamente la sussistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento, venendo meno la possibilità di sindacare la scelta imprenditoriale che abbia portato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato nei suoi profili di congruità ed opportunità, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo[1].
La costruzione giurisprudenziale consolidatasi ritiene legittimo il licenziamento per g.m.o. laddove il riassetto organizzativo sia effettivo (e non meramente pretestuoso)[2]; fondato su circostanze realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso (non relativo a circostanze future ed eventuali)[3]; sussista il nesso eziologico tra il riassetto aziendale e l’atto estromissivo[4]; la scelta del dipendente da licenziare avvenga secondo correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c., scevra da atti di carattere discriminatorio[5] (potendosi a tal fine far riferimento ai criteri previsti dalla legge per i licenziamenti collettivi[6]); venga verificata l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (cd. repêchage); venga rispettato il preavviso (o corrisposta la relativa indennità).
Infine, è importante evidenziare che l’onere di provare la sussistenza delle condizioni sopra indicate ricade sul datore di lavoro[7].
Recentemente, la Corte di Legittimità ha confermato l’orientamento già consolidatosi secondo cui è ritenuto legittimo il licenziamento per g.m.o. anche in assenza di una situazione di crisi aziendale, dovendo il Giudice limitarsi a verificare semplicemente l’effettività della riorganizzazione e che la stessa preceda il licenziamento.
Con la decisione n. 19655/2017, ancora la Corte affermava che “è legittimo il licenziamento per ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento della stessa, in esse comprese anche quelli attinenti ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero dirette ad un aumento della redditività d’impresa, una volta che ne sia stata verificata l’effettività del ridimensionamento e del nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato: spettando un tale accertamento di ricorrenza (e non pretestuosità) delle ragioni stabilite dall’art. 3 L. 604/1966 al sindacato giudiziale, senza alcuna indebita interferenza sull’insindacabile autonomia imprenditoriale (Cass. n. 25201/2016; Cass. n. 25197/2013; Cass. n. 7474/2012; Cass. n. 15157/2011).
La lettura offerta dalla Cassazione allarga le ragioni giustificatrici dell’atto di recesso, consentendo di ritenere legittimo il licenziamento di un lavoratore senza che ricorra una sofferenza economica dell’azienda quale presupposto legittimante. La dottrina ha accolto positivamente tale interpretazione[8], pur smussandola con la ritenuta necessità di riaffermazione del controllo giurisdizionale sul rispetto dell’obbligo di repêchage quale elemento interno alla struttura del g.m.o., e dei criteri di scelta al fine di equilibrare i contrapposti interessi del datore di lavoro e del prestatore di lavoro.
Invero, a parere della dottrina, la linea argomentativa adottata dalla Corte “metterebbe in serio pericolo la tutela (costituzionale) del lavoratore a fronte di licenziamenti privi di una effettiva “ragione”, soprattutto se la lettera di recesso non contenesse alcuna motivazione della soppressione del posto, ma semplicemente l’esistenza materiale di un processo (ri)organizzativo. Infatti, l’interpretazione che si sta consolidando ed arricchendo di ulteriori elementi, sbilanciati a favore delle imprese, consente al giudice di valutare solo l’esistenza materiale del processo organizzativo antecedente all’atto di recesso, fermo restando la valutazione del nesso causale e dell’obbligo di “ripescaggio”, senza che si possa esercitare un controllo di legittimità (non certamente di merito) delle “ragioni” alla base (e non a monte) del licenziamento[9]”. “La chiave di lettura che possa quindi bilanciare le tutele accordate al lavoratore è senz’altro un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 3 l. 604/1966. L’interprete dovrà applicare un principio lavoristico al quale attribuire evidente posizione di supremazia rispetto ad altri diritti costituzionali connessi all’impresa ed all’attività economica[10]”.
A parere di chi scrive, interessante è la giurisprudenza relativa ai licenziamenti comminati per trasferimento d’azienda o ramo d’azienda, laddove statuisce che “l’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pone a carico del datore l’onere di provare l’esistenza del motivo posto alla base del licenziamento stesso e la mancanza di possibilità di adibire aliunde il lavoratore. Il giudice del merito, adito per la declaratoria di illegittimità del licenziamento è, dunque, tenuto al controllo della effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto alla base del recesso datoriale, nonché del nesso di causalità tra il medesimo e l’individuazione del soggetto destinatario del provvedimento di licenziamento. Nel caso concreto […] deve concludersi con una declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogato per messa in liquidazione della società, la cui attività, invece, risulta trasferita ad altra impresa, avente medesima sede legale, sede operativa, amministratore unico, numero di telefono e di fax di quella cessata. La dichiarazione di illegittimità del licenziamento e l’accertamento del trasferimento d’azienda, comporta, altresì, l’accoglimento della domanda del prestatore volta all’accertamento del proprio diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con la nuova società e la relativa condanna al ripristino del rapporto di lavoro. […] Nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, in qualunque forma realizzato, il rapporto di lavoro prosegue con l’acquirente e il lavoratore conserva tutti i diritti derivanti, con la conseguenza che il licenziamento non fondato su giusti motivi diversi dal trasferimento è nullo e va disapplicato dal giudice, con condanna del datore di lavoro succedutosi al risarcimento del danno (Trib. Grosseto 19.12.2006)”[11].
Ancora, “il licenziamento, motivato con la cessazione dell’attività della società datrice di lavoro, ma in realtà dovuto alla cessione di ramo d’azienda, è nullo o inefficace, il che giustifica la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna del datore al risarcimento del danno”[12].
Rientra nelle ipotesi di licenziamento per g.m.o. quello conseguente alla cessazione dell’attività produttiva – ipotesi peraltro espressamente prevista dall’art. 24, c. l. 223/1991 per il licenziamento collettivo -. La scelta dell’imprenditore di cessare l’attività produttiva non è censurabile e lo stesso non è tenuto a giustificare tale decisione.
Malattia – inidoneità – handicap del lavoratore.
L’art. 2110 c.c. dispone che: “In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità. Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità. Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di servizio”.
La norma citata dunque stabilisce che in occasione di eventi come la malattia, l’infortunio, la gravidanza ed il puerperio, che impediscono la regolare effettuazione della prestazione lavorativa, il rapporto di lavoro è sospeso ed il datore non può recedervi, anche se non avesse più interesse alla prestazione ed anche in caso di sussistenza delle condizioni previste ex lege per intimare un licenziamento per g.m.o., fino a quando l’assenza dal lavoro non si protragga oltre il limite stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. Tuttavia, una volta decorso tale termine, cd. di comporto, il datore è libero di recedere dal rapporto a prescindere dall’esistenza o dimostrazione delle condizioni poste dalla legge in materia di licenziamento, dovendo il Giudice di merito limitarsi ad accertare se la malattia, unica o discontinua, abbia superato o meno predetto termine. I contratti collettivi stabiliscono, di norma, la durata del periodo di comporto, il quale si distingue tra: comporto secco – quando il periodo di conservazione del posto di lavoro si riferisce ad un’unica ed ininterrotta malattia, e comporto per sommatoria, quando il periodo di comporto comprende una pluralità di episodi morbosi che si manifestino entro un determinato periodo di tempo – talvolta, tuttavia, tale periodo non viene espressamente disciplinato dai ccnl -.
Una questione più volte esaminata dalla giurisprudenza attiene al rapporto tra l’istituto della malattia e quello della inidoneità fisica.
La malattia ha carattere temporaneo e comporta l’impossibilità totale della prestazione per tutta la sua durata, mentre l’inidoneità ha carattere permanente o, quanto meno, una durata indeterminata, od indeterminabile e non comporta necessariamente l’impossibilità totale della prestazione, consentendo la risoluzione del rapporto indipendentemente dal superamento del periodo di comporto.
L’art. 42 d. lgs. n. 81 del 2008 dispone che: “il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute. Il lavoratore di cui al comma 1 che viene adibito a mansioni inferiori conserva la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria. Qualora il lavoratore venga adibito a mansioni equivalenti o superiori si applicano le norme di cui all’articolo 2103 del codice civile, fermo restando quanto previsto dall’articolo 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
La Cassazione è granitica nel disporre che: “l’art. 42 del d.lgs. 81/2008, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti od inferiori, nell’inciso “ove possibile” contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare – anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti”[13].
Ancora diversa è l’ipotesi di handicap del lavoratore. Invero, la Cassazione ribadisce che la nozione di “handicap” non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea sicché può parlarsi di nozione europea di disabilità (direttiva n. 78/2000/CE del 2000, ndr). La Corte di Giustizia, sin dalla sentenza 11 luglio 2016, in causa C13/05, Chacon Navas […] osservava che: “dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di uguaglianza, discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto dell’intera Comunità di un’interpretazione autonoma ed uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguito dalla normativa di cui trattasi” (sentenza cit., punto 40).
[1] Cass. n. 19655/2017; Cass. n. 25201/2016.
[2] Cass. n. 18409/2016;
[3] Cass. n. 5301/2000;
[4] Cass. n. 2595/1993;
[5] Cass. n. 6667/2002
[6] Cass. 5525/2016.
[7] Cass. 15258/2012.
[8] R. Del Punta, Disciplina del licenziamento e modelli organizzativi delle imprese, in Dir. Lav. e rel Ind., 1998, 704.
[9] Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo “organizzativo”: la fattispecie, in WP CSDE.
[10] Speziale, Il giustificato motivo oggettivo: extrema ratio o normale licenziamento economico?, A. Perulli, Torino, 2017.
[11] Tr. Milano, sez. lavoro, n. 1561/2016.
[12] Tr. Firenze, 7.10.2017
[13] Cass. n. 13511/2016.